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domenica 24 marzo 2013

Storia di Neapolis: Fondazione

Uno dei tratti caratteristici di una storia ben scritta è, a mio avviso, la profondità della stessa. Con ciò, intendo indicare tutti quegli elementi che rendono reale la trama e, con la loro presenza, più robusta la sospensione dell'incredulità.
Siamo esseri umani che cerchiamo di compenetrarci in una storia, vaghiamo in essa sbirciando qui e là, condotti per mano dallo scrittore forse, ma ci ritroviamo spesso a guardare dettagli ai quali egli non ha dato l'importanza che diamo noi. Sembra una gita scolastica con una classe di discoli? Beh, ci va molto vicino! :D
Per ovviare alla curiosità del lettore, non credo che esista altro rimedio che soddisfarla, curando nel dettaglio la consistenza di tutta la storia.
In Neapolis - Il richiamo della Sirena ho descritto una città che era già antica quando la storiografia ufficiale comincia a parlarne: la sua fondazione era mitica, il suo passato a tratti tenebroso, eppure aveva già lasciato vestigia importanti. Nella serie di post che inauguro col presente, descriverò la storia di Napoli fino al momento dell'azione descritta nel romanzo. In questo post descriverò la fondazione della città.
Chiunque sia stato lungo il promontorio di Posillipo, conosce la costa di Napoli per essere alta e rocciosa. La natura di queste roccie è vulcanica, di tipo tufaceo. Il mare aveva provveduto a scavare grotte naturali abitate già in epoca preistorica da un popolo che i primi greci non seppero come meglio definire se non “abitatori di grotte”, Opikoi.
Nel tratto di mare prospiciente la città di Napoli si erge un isolotto roccioso, sul quale s'innalza oggi il Castel dell'Ovo, che dovette servire da approdo già ai naviganti fenici, se si vuole riconoscere nel nome di Megaris (Megaride) una derivazione dal punico.
Castel dell'Ovo

Castel dell'Ovo, sull'isolotto di Megaride, il primo nucleo storico dell'attuale Napoli.

Se fu fenicio, Megaris non fu comunque mai uno stanziamento stabile ma piuttosto un piccolo emporio, una vera e propria piazza di mercato nella quale si riunivano i mercanti punici e le popolazioni autoctone per scambiarsi merci. Sarebbe difficile, infatti, giustificare altrimenti la successiva denominazione di Phalero, il primo nome vero e proprio di Napoli, se non pensando ad una guerra tra i preesistenti fenici ed i nuovi arrivati greci.
La storia, normalmente generosa nel tessere le lodi di nuovi e vincitori dominatori, non ci lascia traccia di episodi cruenti, ma narra solo della colonizzazione guidata dall'eroe ateniese Eumelo Phalero, compagno di Giasone durante la sua ricerca del vello d'oro ed arciere formidabile, in onore al quale fu eretta una torre nel centro del porto della nuova città fondata sulla collina di Pizzofalcone, che da lui prese il nome.
Questa prima colonizzazione fu però talmente antica che, quando nel VII sec. a.C. i coloni di Kyme (Cuma) giunsero a Phalero per impiantarvi un emporio, la città doveva già chiamarsi altrimenti, probabilmente Parthenope.
Tra Phalero e Parthenope altri coloni greci erano passati (Ulisse fu solo uno dei tanti, il più famoso forse), e il luogo era stato ribattezzato.
Il fatto che il luogo sia stato ribattezzato non è evento di poco conto. Esso testimonia il passaggio da un gruppo di coloni, orgogliosi delle loro origini e dei loro antenati, ad un altro gruppo, devoto a quella figura mitologica che era la “sirena dalla voce virginale” Parthenope.
I due gruppi sarebbero provenuti da Atene e da Rodi, nell'Egeo orientale, dove il culto della sirena era diffuso, quindi sono certe almeno due colonizzazioni diverse. Il sopraggiungere di coloni Rodii è datato al IX sec. a.C., mentre tracce micenee rimontano a prima del XII sec. a.C.
Certamente non furono i cumani a dare il nome di Parthenope alla città: essi, di antenati calcidesi (da Chalkis, in Eubea), erano devoti ad Apollo, il massimo nume degli oracoli nel Pantheon greco, mentre abbiamo visto in un post precedente che la Sirena Parthenope era probabilmente legata ad un'altra tradizione oracolare, e pertanto in aperto contrasto con quella cumana.
Quella dei cumani, nel VII sec. a.C., fu dunque la terza ondata di colonizzazione greca, ma non certo l'ultima. Anche i cumani si limitarono ad occupare la collina di Pizzofalcone, magari estendendo le mura dell'abitato preesistente, ma pare che anche sotto di loro Parthenope continuò ad essere un emporio, un mercato e non una vera polis.
Parthenope, sulla collina di Pizzofalcone

Parthenope sotto i cumani, relegata sulla collina di Pizzofalcone.

Ancora la leggenda dice che i cumani fondarono Parthenope per poi soffrire d'invidia nel vedere che la loro colonia diventava immensamente ricca. Secondo questa leggenda, i cumani decisero di radere al suolo Parthenope, salvo poi essere puniti per quest'azione fratricida con una terribile pestilenza. I cumani, terrorizzati dal morbo, andarono a chiedere un oracolo al tempio di Apollo a Delfi, e ne trassero l'istruzione di ricostruire la città.
Non c'è in realtà alcun bisogno di chiamare in ballo qualcosa di tanto odioso come il fratricidio: la storia cominciava a fare capolino sul suolo di Neapolis quando i Tyrrhenoi (gli Etruschi) raggiunsero la Campania e, conquistatone l'entroterra, trovarono i greci sulle sue coste. Parthenope, che non era un grande borgo, dovette essere temporaneamente abbandonata a sé stessa, perché troppo impegnativa da difendere. Ma nel 524 a.C., il tiranno cumano Aristodemos sconfisse gli Etruschi per terra, e nel 474 a.C., nelle acque di Cuma, la flotta cumana, appoggiata in maniera determinante da Gerone I di Siracusa, sconfisse quella etrusca, ricacciando definitivamente dal Tirreno meridionale le mire espansionistiche estrusche.
I siracusani chiesero una giusta ricompensa per l'aiuto prestato. Accanto alla vuota Parthenope sorgeva un altopiano assai scosceso su tutti e quattro i lati. A nord era protetto dal vallone dell'attuale Via Foria, ad ovest scorreva il Sepeithos (Sebeto), a est c'erano paludi, a sud era il mare.
Su quell'altura, dove preesisteva già qualche edificio, venne fondato un nuovo quartiere che ospitò un gran numero di coloni siracusani. Era nata Neapolis.
Neapolis vista dall'alto

Neapolis, in una ricostruzione a volo d'uccello.

Molti hanno creduto di vedere nel nome una contrapposizione ad una Palepolis (come fa Livio, ad esempio), ma ciò è semplicemente ridicolo: non si può fondare una "Città Vecchia" senza immaginare che ci sarà una "Città Nuova". Ma ciò significa semplicemente che la Palepolis di Tito Livio aveva un altro nome (Parthenope), e non che essa non esistesse tout-court, come pure alcuni hanno commentato.
Se vogliamo cercare un senso, un precedente al nome di Neapolis, mi valga allora osservare che, quando Siracusa offre il proprio aiuto nella fondazione del nuovo quartiere, essa era già nota come la pentapolis, “la città quintupla”, perché cinque erano i quartieri che la costituivano: Ortygía, Achradina, Tyche, Epipolis e, guarda caso, Neapolis.

4 commenti:

  1. Una superba descrizione di una città meravigliosa, dalle sue profondità preistorici.

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  2. il racconto non chiarisce abbastanza che cosè un emporio. qualè il senso di scambi commerciali dove non ci sono monetazioni, che senso ha andare in giro per mare solo in estate per trovare pesci, chi sarebbero i tirreni e chi sarebbero i fenici. tralasciando il capitolo sirene, molto imbarazzante, resta da chiarire che un insediamento notevole il quale prevede il soggiorno invernale non può fare a meno di mura megalitiche, argomento ignorato dal suo racconto. forse non è poi molto importante sapere quale delle tante scritture potrebbe essere stata adottata dai campani, genti che vivevano forse in modo semplice prima degli interventi di una civiltà che vi ostinate a trascinare in una grecia mitica che non comprendete, infatti quei rodii di cui parlate forse comunicarono delle scritture, ma ebbero qualcosa in cambio altrimenti di che commercio parlereste?non posso affrontare l'argomento non sapendo cosa servisse ad un greco per giungere fin qui: voleva pesce? gli serviva del legname? veramente resta un mistero, del perchè mai si spostassero così lontano rischiando naufragi, sete e fatica...per trovare un mondo di selvaggina

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    1. Gentile "sconosciuto", la ringrazio per l'attenzione, e per aver reso un esempio così calzante proprio del secondo paragrafo, cercherò di risponderle punto per punto.
      Ha ragione: il racconto non chiarisce molto cos'è un emporio, do per assodato che chi si interessi a questi temi possa maneggiare alcuni concetti di base.
      Non chiarisco nemmeno il senso di scambi commerciali dove non ci sono monetazioni. Abbiamo dimenticato, è vero, la potenza del baratto, che ha permesso la diffusione di oggetti di ogni provenienza in tutt'Europa.
      Non chiarisco nemmeno perché le antiche popolazioni andassero per mare solo d'estate per trovare pesci. Né credo che fosse questo il loro scopo, ma sappiamo che lo facevano.
      Chi sono i tirreni (Etruschi) lo dico. Le ricordo che questo è un blog che tratta di un romanzo storico con elementi di fantasia, e non un'aula universitaria, e se devo spiegare chi erano i fenici riduco quest'aula alle scuole elementari.
      Non capisco cosa ci sia di imbarazzante nelle sirene, davvero. Se ha qualcosa da dire, esprima il suo imbarazzo, magari curabile.
      Le mura le ho citate, l'argomento non è affatto ignorato, forse se lo è perso lei.
      La scrittura dei campani... Sarebbe davvero interessante sapere che scrittura usavano... in un blog che parli degli antichi abitatori della Campania, ma le è forse sfuggito che questo blog narra di Neapolis, città da sempre dominata da coloni di civiltà eteroctone.
      La ringrazio per il plurale majestatis ("non comprendete"). Io non trascino proprio nessuno, e il mito sta alla Grecia come le chiese ai giorni nostri. Il mio uso del mito è funzionale a traslare valori positivi e ragioni d'orgoglio a una terra e a un popolo che sembrano non avere ragioni per migliorarsi. Il suo atteggiamento nichilista è la cosa che meno serve su queste pagine.
      "Quei rodii di cui parlate...", e mica solo i rodii! Ma le ripeto, sempre nello spazio e con la leggerezza di un post su un romanzo!
      Cosa spingeva gli antichi greci (e i fenici, e tante popolazioni delle quali non ci è rimasta traccia o ricordo) a tanto peregrinare? Sembra questa la sua domanda. Ma il mondo è tanto cambiato da allora, era più vuoto di persone e più ricco di possibilità, mentre la Grecia era sovraffollata e il suo terreno roccioso dà a stento frutto. Questo sarebbe davvero un bel tema da esplorare, un tuffo in un sentimento così primordiale come quello di scoperta. Si cimenti!

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